E un tocco di genio rinnovò i timpani

Un trucco, un guizzo d’artista: è bastato un colpo di genio – e chissà chi fu, tra gli scultori romanici, il primo a concepirlo – per cambiare la classica rappresentazione del Cristo in gloria nei timpani medievali.

La scena del Redentore circondato dal “tetramorfo”, rappresentata molte e molte volte nel medioevo, è ispirata al racconto della visione che l’apostolo Giovanni ebbe in tarda età e narrò nel Libro dell’Apocalisse. Mille sono gli attori della grande e composita visione; ma a noi oggi interessano solo cinque personaggi tra quelli che si muovono sul palco. Al centro c’è il Cristo che torna nella gloria dell’Ultimo Giorno; il Salvatore è in trono, ed è attorniato dai quattro “creature viventi”, che costituiscono, appunto, il “tetramorfo”:

La prima creatura vivente era simile a un leone, la seconda simile a un vitello, la terza aveva la faccia come d’un uomo e la quarta era simile a un’aquila mentre vola. (Ap. 4, 7)

Nel “tetramorfo”, quindi, la Seconda Venuta chiama a testimone tutto quanto si muove sulla terra: gli esseri umani, quelli che volano, quelli selvatici, quelli domestici. Il Cristo torna, atteso da secoli, e gli esseri “viventi” – che insieme assumono il nome di “tetramorfo”, “le quattro forme” e che solo in seguito saranno associati come simboli agli Evangelisti – sono pronti alla rinascita: presidiano l’istante in cui il tempo del mondo si conclude e camminano incontro ai tempi nuovi che si aprono.

In questo minuetto “a cinque”, nei timpani romanici il leone e il vitello stanno in basso, mentre l’uomo e l’aquila stanno più in alto; da queste posizioni i quattro “Viventi” guardano il Signore in trono. Tutti e quattro i “viventi” sono dotati di ali – anche il testo apocalittico di Ezechiele, nell’Antico Testamento, aveva parlato di quattro figure alate – e per questo su trasformano in una certa misura: indossate le ali, l’uomo diventa un angelo, mentre le due bestie terrestri si trasformano in quegli animali simbolici che tutti conosciamo: il toro alato e il leone alato, con il secondo che, legato infine a Venezia e al suo mito, avrà molta fortuna anche nei secoli successivi e godrà di una nuova sua vita.

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Il timpano di Arles

Questo schema classico, che per le ripetute rappresentazioni rischia addirittura di “ingessarsi” in una immagine statica, muta d’improvviso quando e là dove scocca un’intuizione, come una scintilla: succede infatti che in alcune rappresentazioni – anzi in molte di esse – il toro e il leone si “girano”, dando addirittura così le terga al Salvatore; ma poi, per non essere scortesi e non smettere di guardarlo, di nuovo voltano il capo, indirizzando lo sguardo verso il centro della scena, verso il volto del Redentore.

Con la loro giravolta, e poi con la torsione del collo, le due bestie alate assumono una posizione nuova, che permette loro di riempire al meglio lo spazio particolare del timpano, e allo stesso tempo dà un impulso di movimento alla scena. Si confrontino due timpani per molti aspetti simili, quello di Arles e quello di Chartres, che mostrano bene la differenza di impostazione: statica e classica ad Arles, dove toro e leone sono rivolti verso il centro, e il primo addirittura sembra ritrarre la testa per non urtare la mandorla; mossa e briosa a Chartres, dove girati e rigirati i due quadrupedi danno alla scena una nuova inattesa vivacità.

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Il timpano di Chartres

È nel portale di Charlieu, probabilmente, che vediamo la più viva tra le rappresentazioni del Salvatore circondato dai “viventi”: qui addirittura la schiena del leone e del toro servono da “piedistallo” alla danza degli angeli che si sono aggiunti alla festa; ma basta la bella pala d’altare scolpita (e firmata) dal “magister” Bonamico, conservata al Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, a dimostrare come la nuova disposizione – e si noti come in questo rilievo anche l’aquila sembra compere la stessa torsione – favorisca la costruzione di scene ben più mosse ed allo stesso tempo equilibrate nei pesi e nelle linee.

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Il Salvatore tra i viventi nell’altare di Bonamico (foto: Epigrafia Medievale Siena) e, più sotto, il portale di Charlieu

Non sapremo mai se fu un artista, uno in particolare, ad introdurre questa “inversione”, avviando le danze, o se invece ci troviamo di fronte ad un’invenzione a cui molti scultori sono arrivati ciascuno per proprio conto; comunque sia, si tratta di una geniale intuizione, che ha ridato brio a quella che è probabilmente la scena più rappresentata e più densa di significato di tutta l’arte romanica, più ancora della Crocifissione. E sarebbe bello avere a disposizione un catalogo, una mappa, per vedere chi tra gli scultori medievali, e dove, ha saputo e voluto far proprio questo trucco d’artista, e chi si è invece rifiutato di farlo proprio.

5 pensieri su “E un tocco di genio rinnovò i timpani

  1. Carlo

    Beigbeder attribuisce questo genere di rappresentazione del Tetramorfo a ragioni simboliche.
    Si sarebbe trattato di un modo di evidenziare il tema della “X” in quanto allusione all’ “incrocio “.

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