Abramo: il lungo istante poi il suicidio

Quand’ero ragazzo, nessuna pagina della Bibbia mi risuonava affascinante e cruciale come il racconto del “sacrificio di Isacco”, di quando cioè Abramo, per volere del Signore, portò il figlio sul monte, pronto ad immolarlo per compiacere il suo Dio. Molte cose mi impressionavano, allora, in quella vicenda, a cui davo una lettura infantile; e altre mi impressionano ora, che sono adulto e la leggo con occhi più profondi.

Ebbene: com’è accaduto a me – e come accade a chiunque rilegga, crescendo negli anni, quel capitolo del Genesi – anche il tempo romanico sembra aver mutato il proprio modo di guardare a quel racconto, e di raccontarlo. E nelle tante rappresentazioni che del “sacrificio di Isacco” ci ha lasciato l’arte medievale, si trova la stessa stratificazione di impressioni ed emozioni, e si trovano i diversi livelli di lettura e di coinvolgimento.

Da ragazzo – ricordo – mi domandavo quali sentimenti provasse Isacco mentre il padre preparava il sacrificio, e mi chiedevo se aveva opposto resistenza e se mai, dopo il lieto fine, avrà potuto comprendere e perdonare… Ma mi tormentava soprattutto una domanda precisa, risibile se volete, ma sempre presente, centrale nei miei pensieri. Mi chiedevo: Come ha potuto l’angelo fermare Abramo proprio nel culmine della sua azione? Come ha potuto, cioè, intervenire non troppo presto, per essere certo che Abramo avrebbe sferrato il colpo, ma per tempo, perché il sacrificio non si compisse?

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Il “sacrificio di Isacco” ad Autun

Ritrovo questa mia domanda, con tutto il suo carico di ingenuità, nascosta dentro quei capitelli romanici in cui, secondo la più classica rappresentazione – come nel capitello a La Sauve – la mano dell’angelo ferma e stringe, per impedirgli di calare, il polso destro di Abramo, armato e pronto a colpire. Quando poi la mano dell’angelo addirittura afferra la stessa lama, rivedo la mia languida convinzione di bambino: più ancora che il polso, è proprio la lama che l’angelo doveva fermare – come fa nel capitello di Autun, o in quello della cattedrale di Ginevra – per impedire che questa ferisse, per assicurare l’incolumità di Isacco.

Ora che sono quasi vecchio, mi fermo a meditare su altri risvolti della vicenda. Da uomo di fede vedo nel gesto che Abramo era pronto a fare non tanto e non solo il sacrificio del figlio – che pure è un sacrificio disumano – quanto piuttosto il sacrificio del proprio intimo, della propria felicità, del proprio presente e del proprio futuro. Il Dio che chiama Abramo e lo porta lontano da dov’era – e non per la prima volta – è la vita stessa, la nostra vita, che quando vuole grida il nostro nome, e ci ribalta, ci impone scelte e gesti e che mai avremmo pensato di dover fare. Il Dio che chiama Abramo non chiede all’anziano patriarca un omicidio, cioè di uccidere un altro da sé; in verità gli chiede di distruggere, sacrificando il figlio, quella che Abramo considera la sua propria ricchezza, la sua propria gioia, la sua propria esistenza – chiede cioè ad Abramo un vero e proprio suicidio. Gli chiede un salto nel buio. Abramo lo fa, abbandonandosi, lasciandosi precipitare nel vuoto assoluto, come a volte anche noi siamo costretti a fare, quando la vita lo pretende facendoci deviare all’improvviso dal cammino che sembrava placido, come finalmente sembrava placido quello di Abramo prima della chiamata.

Anche il medioevo romanico ha lasciato rappresentazioni più “adulte” del sacrificio di Isacco, rispetto a quelle di cui dicevamo. Permeato di drammatica attesa è, tra tutti, il capitello del pontile del Duomo di Modena, opera delle maestranza “campionesi”, databile agli ultimissimi anni del XII secolo e del romanico. Qui, quella scena che altrove è scandita dalla successione dei rapidi gesti – un braccio armato che si alza e sta per colpire, una mano che giunge improvvisa e afferra la lama – è invece fissata in un’assoluta immobilità. Abramo trattiene alla gola Isacco, congelato nell’attesa; il suo braccio è armato, ma immobile: e a fermarlo non è certo la mano debole di un angelo nascosto e quasi assente, ma piuttosto la consapevolezza della tragica crisi da cui si sente invaso. E nel suo sguardo si legge la lenta e ripetuta domanda – “Davvero sto per colpire a morte ogni mia certezza? Davvero mi sto gettando nel gorgo da cui forse mai risalirò?” – che rotola con un rumore sordo e continuamente e rimbomba.

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Il “sacrificio di Isacco” nel pontile del Duomo di Modena

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Non c’è, questo pezzo notevolissimo, nel volumetto sui capitelli medievali che Before Chartres propone, finalmente “in carta”, ai suoi lettori più fedeli. E però ce ne sono altri dodici – anzi, per la verità ce ne sono altri quattordici – che hanno la pretesa di essere altrettanto belli. Vedere per credere. Qui: “DODICI splendidi CAPITELLI ROMANICI”

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Un vero e proprio diario di viaggio, attraverso la vasta piana padana – la “Lombardia” medievale – e attraverso le dodici delle grandi chiese costruite nel tempo romanico, che competono in magnificenza, autorità e splendore: Before Chartres le osserva e ne descrive il cuore, in un nuovo delizioso volumetto: LE GRANDI “chiese di città” DELLA PADANIA ROMANICA.

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La Lombardia “alta” è una delle culle, se non la vera culla, dell’architettura romanica. Da qui i “maestri comacini” portarono i segreti della loro laboriosa abilità costruttiva un po’ dovunque in Europa. Questo itinerario in dieci tappe racconta le loro realizzazioni più preziose – da Gravedona ad Almenno San Bartolomeo, da Agliate ad Arsago Seprio a Civate – e lo spirito, i colori, i materiali, i modi e i vezzi che i hanno lasciato nelle chiese delle loro terre d’origine: DIECI PERLE romaniche TRA MILANO E I LAGHI

24 pensieri su “Abramo: il lungo istante poi il suicidio

  1. Paolo Salvi

    Quante volte ho visto il pontile del duomo di Modena e quante volte non ho saputo vedere quello che tu hai magicamente descritto. Per fortuna ci sarà una volta ancora a consentirmi di appropinquarmi con maggior attenzione e consapevolezza. Sai descrivere le immagini architettoniche, affreschi e sculture, come pochi altri e con una poetica sublime.

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  2. Anonimo

    Io in questa scena provavo un senso di rabbia perché Abramo non si ribelló ad un volere così profondamente ingiusto. Una cosa così assurda, una prova così sadica di fedeltà richiesta da un dio…

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  3. Francesco Piccinelli (da Fb):
    Molto bella questa riflessione, grazie.
    L’ho seguita e mi sono ritrovato; è vero, la vita richiede sacrificio e abbandono.
    In questo contesto però ho avuto qualche difficoltà a reinserire la figura dell’angelo e il gesto di fermare l’azione del sacrificio.
    Penso che il senso si possa trovare non tanto nel fermarsi in tempo prima del compimento del sacrificio, che significherebbe non arrivare in fondo all’azione intrapresa, ma nell’istante in cui quello che sembrava un sacrificio ci rinnova, ci fa vedere una nuova dimensione e una nuova prospettiva. Un sacrificio che non produce morte ma genera nuova vita.
    Qual è l’istante giusto per l’intervento dell’angelo? E’ esattamente l’istante in cui arrivati in fondo ci ritroviamo sollevati, morendo a noi stessi abbiamo accesso a una nuova vita.
    E’ quando il seme muore per dare vita a una nuova pianta, in questo istante è la mano dell’angelo.

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  4. Difficile comunque giustificare ai nostri occhi contemporanei, così indifferenti agli eccidi di massa e così pronti a commuoversi – in massa – per l’abbandono di un cane o per la sorte dei visoni da pelliccia. l’apparentemente crudele comando del Dio intransigente e severo della Bibbia, Ricordo che ero in una chiesa, tanti anni fa, e di fronte alla rappresentazione del sacrificio di Isacco, mi ribellai indignata per quello spettacolo che non capivo. Fu un signore accanto a me – credo di ricordare fosse un ebreo – che mi rispose pacatamene: non è in quest’ottica che deve guardarlo, signorina. In quel tempo i sacrifici umani alle varie divinità erano molto diffusi. Nel comando biblico c’è il rifiuto di questi sacrifici. Il comando divino che ferma Abramo impedendogli il sacrificio del figlio vuole significare appunto questo rifiuto.
    Fu così che ebbi la mia spiegazione illuminante e mi imbattei, forse per la prima volta (ero molto giovane) nella possibilità che i punti di vista per guardare qualcosa possono essere molti, alle volte diametralmente opposti,. E che il mio poteva essere quello sbagliato.

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  5. Piera Sorrentino (da Fb):
    ….un racconto stringente… con suspense…!.. riuscirà l’angelo a fermare Abramo…?…anche Brunelleschi per il concorso delle porte de Battistero fiorentino.. era ricorso ad un simile espediente.. ma lì…in lontananza l’angelo si vedeva!.. sarebbe arrivato in tempo per fermare la mano armata…?…quì nemmeno si vede l’angelo!….davvero tragico!

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  6. Armida Pratesi (da Fb):
    Io nel racconto della Genesi ho sempre visto in realtà un Dio che mette alla prova la lealtà di un essere umano per mezzo di ciò che era pratica più comune in quei tempi e luoghi. Il sacrificio di un essere umano innocente che consacrava un patto di lealtà ed obbedienza con la divinità. Ciò che è stata pratica comune a molte popolazioni in tempi antichi. In Genesi è la stessa Divinità che ti conduce nel luogo più alto dove si pratica da tempi remoti questo rito crudele. È la stessa Divinità che dopo aver chiesto a un suo seguace un gesto col quale praticamente donerà tutto se stesso in suo figlio, la cosa a lui più cara, lo ferma e gli fa capire che è venuto il tempo di una fede che non generi morte, ma vita. L’uomo doveva passare dalla preistoria alla storia e abbandonare l’orribile pratica del sacrificio umano. Un Dio che ti promette prosperità e discendenza e poi te la concede per davvero può richiedere indietro il suo dono? Per farne cosa poi? Dio semmai si serve di uomini vivi affinché insegnino ad altri uomini la strada, il cammino. Dio aveva già saggiato la fede, la fiducia di Abramo in lui. Poca a dire il vero, dal momento che, visto che la promessa discendenza non arrivava, Abramo e Sara presero la Schiava Agar perché potesse generare quel figlio. Ismaele poi, forse, fu il vero Sacrificio che la vita chiese a questo nostro amtenato morale. In senso simbolico si impose la scelta di rinunciare al figlio generato dalla poca fede. In realtà leggere in Genesi che ciò dipese da Sara e dalla sua gelosia fa rabbia e fa anche un po’ sorridere. Sentimenti meschini che giungono a goustificare scelte che non si ha il coraggio di spiegare. Come lo spieghi che il primogenito è quello della vera fede e non quello del sangue? Se Abramo avesse sacrificato Isacco il capostipite sarebbe stato Ismaele. La morale qual è? Non siamo noi ad avere fede in Dio, ma Dio ad accordarci fiducia, anche dopo i nostri errori. Dio è testardo, ci da continuamente delle opportunità
    Ed infatti manderà un angelo, nel deserto, anche ad Agar ed Ismaele

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  7. Marco Gori (da Fb):
    Noto un particolare minore, Abramo non ha una spada ma quella che ha tutta l’aria di essere un pennato. Il pennato era un antichissimo strumento da lavoro e da attacco/difesa usato dalle popolazioni dell’Appennino Modenese fino alla Toscana, risalendo fino ai liguri frignani e apuani. Il pennato si trova inciso migliaia di volte sulle rocce calcaree delle Apuane ed esistono innumerevoli statuette votive di Ercole con pennato provenienti dell’Appennino tosco-emiliano. Probabilmente gli scultori conoscevano bene questa radicata e antichissima tradizione.

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