Le foglie d’acanto dettate dal Signore

Nel catalogo ideale dei più notevoli capitelli romanici, fitti di storie bibliche e di narrazioni di miracoli, un pezzo di stupefacente bellezza si impone pur se scolpito di soli rami, di soli uccelli, di soli piccoli animali. Con altri pochi pezzi di grande qualità, viene dal chiostro perduto dall’antica cattedrale di Pamplona; ma questo, così pieno di natura e così vuoto di vicende umane, sembra quasi una fuga dai temi consueti, una sfida dell’arte alla fede, un insorgere del desiderio di verismo, un nuovo afflato di verismo più che di Salvezza. Lo si può cogliere come uno strappo “pagano” dentro il percorso artistico di questi secoli, così intensamente impregnati di religiosità. Chi poi fatica a sopportare, nella scultura romanica, l’onnipresenza dei temi biblici, teologici, agiografici – anche in fianco a questo capitello ce n’è uno fittamente dedicato alla sofferenza di Giobbe, e ce ne sono altri che raccontano del ciclo della Passione – davanti a questo pezzo si sente come in un’oasi di sano e leggero naturalismo. Anche se non è detto che…

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Il lato più bello dell’opera

Sia chiaro: per tutto il tempo medievale si incontrano, diffusissimi, rilievi a girali, e interi architravi decorati con flora e fauna, e capitelli e amboni e cibori in cui questi temi convivono con quelli biblici e teologici. Ma il capitello di Pamplona, per la qualità dell’impaginazione, del tratto scolpito, della costruzione a più piani, esce da questa vasta produzione figurativa e si propone nel novero dei capolavori. E allora davvero stupisce che tanta qualità e tanta maestria siano stati dedicati, negli anni in cui il romanico produce le sue opere più consapevoli, ad una rappresentazione scevra di significati simbolici e religiosi.

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Una delle facce larghe del capitello

Prima di concludere per la “laicità” di questo capolavoro, perciò, sarà bene confrontarsi con la tesi espressa da Mercedes Jover Hernando, direttrice del museo in cui è conservato il capitello. La quale, al contrario, lo identifica con un titolo che non lascia margini – lo chiama “il capitello della Provvidenza divina” -, lo collega strettamente al vicino capitello che narra di Giobbe e delle sue sofferenze, e ne giustifica l’iconografia – figura per figura, uccello per uccello, animaletto per animaletto – come dettata da precisi versetti, appunto, del Libro di Giobbe. In altre parole, mentre il capitello vicino racconta ampiamente, con l’iconografia consueta, la lunga e faticosa vicenda di Giobbe, la cui fede è provata dal Signore con la malattia, il nostra capitello “della Provvidenza divina”, con le sue quattro facce tutte riempite di foglie d’acanto e d’animali, non sarebbe che la traduzione in pietra del lungo discorso che il Signore fa al povero patriarca malato, per spiegargli come Egli ha cura, proprio come un padre, delle sue creature (Giobbe, capp. 38-41).
Già la splendida greca che circonda tutto il capitello, alzandosi come onda in alcuni punti, rappresenterebbe in pietra l’azione del Signore, che ha cinto i mari:

Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde?” (Giobbe 38, 8-11).

E le foglie d’acanto onnipresenti sul capitello non sarebbero altro che la trasposizione in pietra dei versetti 25-27: “Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una via al lampo tonante, per far piovere anche sopra una terra spopolata (…) e far sbocciare germogli verdeggianti?”. Di più: subito più avanti il Signore, nel suo discorso, cita gli uccelli scolpiti nel marmo: “Chi mai ha elargito all’ibis la sapienza o chi ha dato al gallo intelligenza?”, e i leoni proprio come li mostra il rilievo: “Sei forse tu – dice l’Onnipotente a Giobbe – che vai a caccia di preda per la leonessa e sazi la fame dei leoncelli, quando sono accovacciati nelle tane o stanno in agguato nei nascondigli?” (vv. 39-40).  E sono ancora il versetto successivo – “Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi piccoli gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo? (v. 41) – e poco dopo i versetti 5-8 del capitolo successivo – “Chi lascia libero l’asino selvatico e chi ne scioglie i legami? (…) Gira per le montagne, sua pastura, e va in cerca di quanto è verde” – che avrebbero dettato l’introduzione delle figure degli uccelli e degli erbivori che brucano. Anche lo struzzo che, secondo il testo biblico “depone sulla terra le uova e nella sabbia le lascia riscaldare” (Giobbe 39, 14) sarebbe rappresentato, stando alla tesi della Jover Hernando, dal volatile “che pare nascondere un uovo tra le foglie”.

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Un altro lato breve

Infine: sui quattro angoli erano scolpite quattro piccole figure umane, in gran parte perdute; in una però ancora si può intuire un uomo che sembra scrivere, quasi a lezione; il quale, per la Direttrice del Museo di Navarra, non sarebbe altro che la rappresentazione in pietra della conclusione del dialogo tra il Signore e Giobbe. Dialogo che termina appunto con la disponibilità del patriarca sofferente verso la Provvidenza divina: “Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Giobbe 42, 4-5).

Interpretazioni. La tesi appena esposta, che lega il capitello al Libro di Giobbe, non è accolta da altri studiosi: Dom de Lojendio, che descrive il capitello nel volume “Navarra” di Zodiaque, lo chiama, proprio a partire da questa figurina intenta a scrivere, “capitello degli Evangelisti”. Interpretazioni, dunque. Tutti concordano comunque sulla qualità del pezzo conservato a Pamplona: lo stesso Dom de Lojendio sottolinea come la pur accurata descrizione dell’opera “non può dare un’idea sufficiente del valore di questa scultura” a cui “vanno aggiunti aggettivi al superlativo”; gli fa eco il professor Varela, secondo il quale “quanto al disegno” esso può essere definito come “il miglior capitello del romanico spagnolo e uno dei più belli d’Europa”.

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Uno dei lati maggiori, popolato di animali

Non c’è, questo pezzo notevolissimo, nel volumetto sui capitelli medievali che Before Chartres propone, finalmente “in carta”, ai suoi lettori più fedeli. E però ce ne sono altri dodici – anzi, per la verità ce ne sono altri quattordici – che hanno la pretesa di essere altrettanto belli. Vedere per credere. Qui: “DODICI splendidi CAPITELLI ROMANICI”

3 pensieri su “Le foglie d’acanto dettate dal Signore

  1. Giulio Giuliani ha detto:

    Giovanna Bigalli (da Fb):
    L’interpretazione indubbiamente è affascinante…sul fatto che ci siano dei messaggi simbolici non avrei dubbi… Ma di sicuro il capitello è stupefacente, e l’intaglio così elegante e chiaroscurato, quasi a traforo , di livello altissimo. Scolpire una bella foglia non richiede meno capacità rispetto a realizzare una figura umana (almeno penso. Forse esistevano anche delle specifiche specializzazioni, tra gli artisti?)

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  2. Paolo Salvi ha detto:

    L’ho riletto, come spesso quando ci riproponi i post del tuo blog, è quasi sempre come una prima lettura, utile rinnovo per ragionamenti mai portato a conclusione.
    Concordo che il capitello mostri una qualità scultorea ineccepibile un lavoro di trapano e bulino di un cesellatore, un orafo più che di uno scultore lapicida.
    Un tema apparentemente banale, ricorrente, portato a livelli assoluti.
    Cosa poi ci sia di profano quando si descrive così dettagliatamente la natura, il creato, non saprei, mi sorprende che si ponga il problema.
    Magnifico.

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