Volturno: la città perduta dei monaci

Le guide che accompagnano i visitatori, qui a San Vincenzo al Volturno, dicono che al tempo di Carlo Magno nessun’altra abbazia, in tutto l’impero cristiano, era altrettanto vasta: centinaia di monaci – qualcuno dice addirittura cinquecento – abitavano questo monastero, e ogni giorno, incessantemente, cantavano la gloria del Signore, celebrando la messa nella grande basilica e nelle altre chiese – si dice ce ne fossero in tutto nove – costruite via via dentro la cinta muraria.

Restano, di questo insediamento, vaste rovine appena affioranti da terra, un labirinto di muri bassi, quasi solo le fondamenta, come se il tempo, passato con violenza su questa città della fede, avesse comunque voluto lasciarci una pianta, una mappa, quasi un rilievo di quello che c’era, a futura memoria. E chi giunge qui per ammirare gli affreschi della minuscola “cripta di Epifanio” – anch’essa a suo modo unica – è subito costretto ad allargare il suo sguardo e a vedere, tutto intorno a sé e intorno alla cripta, anche l’imponente abbazia che c’era e non c’è più.

La città monastica nel IX secolo

Tre nobili longobardi di Benevento – Tato, Taso e Paldo – giunsero qui all’alba dell’VIII secolo con l’intenzione di farsi monaci, e qui scelsero di fermarsi, cominciando a costruire gli spazi per la preghiera e per la vita quotidiana sui resti di un insediamento dell’epoca paleocristiana. La comunità monastica crebbe, si popolò e si ampliò per tutto l’VIII secolo – ed erano i tempi più duri di tutto il medioevo! – e la sua espansione accelerò quando Carlo Magno ne sposò il destino, e la mise sotto la propria protezione. Per i loro uffici, i monaci, che erano ormai centinaia, costruirono le nove chiese di cui parlano le cronache, la basilica maior, con la sua mole, dominava tutto quanto costruito tra essa e la riva occidentale del piccolo fiume. Per tutto il IX secolo quello di San Vincenzo al Volturno fu il monastero più esteso di Europa; vasto, potente, ricchissimo, costituì, nell’era delle invasioni, delle migrazioni di popoli e della massima instabilità, una preda ambita quanto la capitale di un regno; e per questo subì attacchi, e con le proprie mura e le proprie forze ricacciò più volte indietro bande di predoni e armate di stranieri. Fino a quando, all’alba di un giorno d’autunno dell’anno del Signore 881, i saraceni giunsero da Napoli e, aiutati da una spia infiltrata nella comunità, riuscirono ad entrare nella cittadella. In quel mattino, ogni edificio del monastero fu distrutto e depredato, e le centinaia di monaci, che erano stati la forza e la sapienza dell’abbazia di San Vincenzo, divennero agnelli da sgozzare. Secondo le cronache del tempo, ne sopravvissero poche decine, che andarono esuli a Capua.

Finisce qui la storia della città monastica di San Vincenzo al Volturno, parte prima. Di quella città dominata dalla grande chiesa madre e sviluppatasi poi, tutto intorno all’estesa piazza quadrata, come un grande monastero concluso, restarono macerie incendiate e abbandonate.

La città monastica intorno al Mille

Come accade ai film di grande successo, che meritano un sequel, anche il monastero tanto amato da Carlo Magno ebbe una seconda vita. La riscossa di San Vincenzo al Volturno cominciò con il ritorno di alcune decine di monaci, trent’anni dopo il saccheggio. L’intero complesso, che era in rovina da quel giorno tragico dell’881, rinasce piano piano nella stessa area; e a cavallo del Mille si ricostruisce la basilica maior, che torna a vivere ancor più imponente: in facciata si aggiunge una torre, anzi tre, secondo i modelli in voga all’epoca per le abbazie imperiali, e davanti ad esse viene costruito un quadriportico, a cui risponda sul lato sinistro un chiostro, che prima non c’era. Nell’epoca ottoniana, così, l’abbazia di San Vincenzo al Volturno è di nuovo potente, per la sua seconda stagione di gloria, che dura però, anche questa, per un tempo relativamente breve. Chiusa anche la felice rinascenza ottoniana, l’Impero, che per due volte aveva messo sotto la propria ala protettrice il monastero, si divide e perde il controllo delle terre più lontane, mentre nel meridione d’Italia comincia la penetrazione normanna. Nei primi decenni del XII secolo i monaci sono pochi e stanchi, e scelgono di lasciare l’area in cui – pur se in due fasi distinte – avevano vissuto per quattro secoli, e trasferiscono la loro comunità al di là del Volturno, sulla riva orientale del fiume, dove costruiscono un nuovo monastero, più piccolo e meglio difendibile, con una nuova chiesa.

La “San Vincenzo al Volturno parte terza”, che è quella che ci resta tuttora, è di scarso interesse perché delle costruzioni abbaziali resta ben poco: è ancora in piedi, in sostanza, solo la chiesa, di forme romaniche ma pesantissimamente ricostruita in epoca moderna. Però fu propiro la migrazione dei monaci da un luogo all’altro che, spostando la vita della comunità al di là del fiume e ad una distanza di alcune centinaia di metri, consentì alla San Vincenzo altomedievale di congelarsi così com’era e dov’era, e di disgregarsi progressivamente: tutti gli edifici della prima e della seconda vita del monastero si sono lentamente ridotti ad un reticolo di muri bassi; le basi in pietra delle tante costruzioni – chiese, cappelle, abitazioni, foresterie, cucine, refettori… – disegnano una vera e propria mappa dell’insediamento antico, dominato dalle rovine perfettamente riconoscibili della grande basilica abbazie; e tutto ciò consente oggi a noi di comprendere com’era – le due immagini qui pubblicate vengono dalla tavole didascaliche del sito archeologico – la stupefacente San Vincenzo al Volturno del IX e dell’XI secolo.

La chiesa attuale, e i resti – ben poca cosa – del monastero del XII secolo e seguenti

Scavano da quarant’anni, in questo sito, che qualcuno definisce come la Pompei dell’alto medioevo. Nella minuscola “cripta di Epifanio” – a cui Before Chartres dedica un altro articolo – gli affreschi del IX secolo costituiscono senza dubbio la parte più interessante dal punto di vista della storia dell’arte. Ma per la storia del monachesimo e della ricostruzione religiosa dell’Europa cristiana, contano ancor di più le vaste rovine della città abbaziale di San Vincenzo al Volturno, e la radiografia che ci regalano raccontandoci l’appassionante reiterata avventura di un monastero europeo di primissimo livello.

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7 pensieri su “Volturno: la città perduta dei monaci

  1. Avatar di Paolo Salvi Paolo Salvi

    Nelle mie ricorrenti peregrinazioni per il Molise, terra amata degli avi di mia moglie, sono stato diverse volte a San Vincenzo al Volturno, potendone vedere le rovine ma ancora senza accedere alla preziosa cripta di Epifanio.
    Contavo di tornarci quest’anno con una guida di eccezione, ma poi mi sono rivolto ad altre mete, quindi dovrò rimandare all’anno prossimo.
    E’ stupefacente come di un sito così importante nell’VIII-IX secolo, uno dei più grandi dell’epoca, rimangano solo modeste rovine, limitate allo spiccato dei muri, di quello che doveva essere un grandioso complesso monastico.

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  2. Gianluca Mex (da Fb):
    No. La cifra di 300 monaci è esagerata dai cronisti. Le dimensioni del complesso e in particolare della chiesa, del refettorio e del dormitorio, valutano più realisticamente, in circa un centinaio il numero di monaci presenti nel periodo d’oro della abbazia carolingia. Per l’epoca era comunque un grande numero.

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