I rapaci nel cielo plumbeo di Galliano

Volano, gli uccelli rapaci, nel cielo scuro dell’abside di Galliano. Insidiano il corpo morto del santo diacono, Vincenzo; e sporcano con le loro ali color della terra quel blu intenso che tutto invade il catino come se la chiesa si aprisse davvero, ad oriente, verso l’orizzonte.

Tre sono i riquadri che, in fila indiana, raccontano di come Vincenzo fu tormentato, ucciso e sepolto. Nel primo, a sinistra, pur molto rovinato, si intuiscono le prime torture, volute da Daciano, che governava con pugno di persecutore la Spagna nei primi anni del IV secolo. Ma poi è nei riquadri centrali, l’uno a sinistra, l’altro a destra della finestra in asse, che il racconto si dipana e si compie mirabilmente. Di qua il corpo disteso del santo taglia la composizione come una lama, mentre ai suoi piedi legati tre sgherri vi si avventano, ed altri tre all’opposto ugualmente si accaniscono, e l’anfora del piombo fuso ci dice in che modo, dopo tanti altri modi, stanno facendo soffrire Vincenzo. Di là, nel terzo riquadro, il santo cadavere riceve attenzioni diverse: mentre è disteso sulla spiaggia – si narra che Daciano lo fece inutilmente gettare in mare legato ad una macina – uno stormo di uccellacci brama di smembrarlo e di cibarsene, ma un corvo, secondo la tradizione, li tenne a bada per volere divino; poi sono tre uomini pii quelli che al corpo si dedicano, e mentre ne preparano la sepoltura, si adoperano per ripagarlo delle percosse e delle torture subite.

Siamo, con questi affreschi, intorno all’anno Mille, in pieno periodo ottoniano. Già una sapiente disposizione delle figure rende nitido il racconto, e la maestria del tratto è innegabile. Che cosa manca allora, a queste pitture, che secondo Raymond Oursel sono impaginate con grande maestria, per reggere il confronto con le più belle del romanico compiuto? “In nessuna parte di questo di questo duplice quadro – scrive – si afferma però già quella ricerca di compenetrazione e di fusione, che nelle pitture romaniche dell’apogeo raggruppa, compone e fonde, in un unico mazzo (…) tutti gli attori”. E insomma Oursel, che alla pittura di Galliano dedica pagine entusiaste, ne scorge anche l’ingenuità, i vincoli delle persistenze classiche e orientali: “Nella sua combinazione spaziale, in cui (…) i vuoti hanno largamente la meglio sulle superfici piene, la continuità della visione è ancora una volta solo orizzontale”.

Il presbiterio e l’abside (foto: Nino Monti)
Il donatore Ariberto (foto: Donatella Bori)

Tant’è. Siamo intorno all’anno Mille, si diceva: lo certifica, all’estrema sinistra di questa stessa fascia affrescata, il ritratto del donatore, quell’Ariberto d’Intimiano che sarà poi vescovo meneghino, e che proprio nei primi anni dell’XI secolo fu suddiacono e custode della chiesa di Galliano; la fece ridipingere proprio con questi affreschi, e se ne attribuì nei secoli il merito con il proprio volto di donatore e con la scritta “Ad honorem Dei ego Aribertus subdiaconus … ac pingere fecit“.

E però guardate: c’è già Cimabue, in queste pitture dell’Anno Mille, e c’è già Michelangelo. Se nel riquadro a sinistra, infatti, le braccia aperte del martire legato evocano una crocifissione, che il Duecento tante volte riproporrà, nel riquadro di destra il corpo morto del santo con il capo reclinato sulla spalla, anticipa le più toccanti “pietà” rinascimentali. Gli affreschi di Galliano, allora, sono una finestra aperta: di qua la lezione antica, imparata e interpretata con maestria; di là lo sguardo a quello che la pittura diventerà nel volgere di un altro secolo, quando le figure sulla scena reciteranno e danzeranno. Ed è proprio la lezione di Galliano, scrive ancora Oursel guardando in particolare alle figure dei profeti, ai piedi del Cristo nell’abside, che “darà vita attraverso una successione di trasmutazioni e semplificazioni formali nientemeno che ai pesanti volumi gonfiati e tumidi del maestro di Vic-Nohant”, là dove finalmente la pittura romanica ritroverà la piena padronanza del movimento scenico.

La chiesa e, a destra, il battistero

La terra alta tra Milano e i Laghi è una delle culle, se non la vera culla, dell’architettura romanica. Da qui i “maestri comacini” portarono i segreti della loro laboriosa abilità costruttiva un po’ dovunque in Europa. Un itinerario in dieci tappe racconta le loro realizzazioni più preziose – da Galliano ad Almenno San Bartolomeo, da Gravedona ad Arsago Seprio a Civate – e lo spirito, i colori, i materiali, i modi e i vezzi che hanno lasciato nelle loro terre d’origine: DIECI PERLE romaniche TRA MILANO E I LAGHI

3 pensieri su “I rapaci nel cielo plumbeo di Galliano

  1. Paolo Salvi ha detto:

    Un complesso esemplare questo di Galliano nei pressi di Cantù. Ricordo la mia visita recente (un paio d’anni non di più), che un prete sorridente mi venne incontro lieto, una rarità, per il mio interesse per le pitture della chiesa.
    Dalle foto che ci mostri ho notato una cosa curiosa che mi era sfuggita: un dipinto che potrei definire alla Escher, per quella prospettiva architettonica ingenua e falsata, quasi un tromp-l’oeil.

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