Affascinato dalla storia complessa dell’abbazia di Santa Croce al Chienti, e colpito dal suo interno, reso nuovo dal recentissimo e ardito restauro, non riesco a non pensare ad uno strano avvicendamento: un abate che, fuggendo, lascia il suo monastero, e un architetto che ne prende il posto, appropriandosi della chiesa antica.
L’abate che fugge è Filippo, e siamo alla fine del XIII secolo. Il sito “I luoghi del silenzio”, che racconta e documenta anche questo sito romanico, riassume così la vicenda: “L’anno 1291 segna la fine dell’autonomia dell’abbazia: l’ultimo abate, Filippo, scomunicato per non essersi assoggettato ai potenti cistercensi, sarà costretto a fuggire e ad abbandonare il monastero. D’ora in avanti saranno i Comuni, ed in particolare quello di Sant’Elpidio, il punto di riferimento politico, economico e religioso”. Fuggì nella notte, io credo, e fuggì in preda al panico, sconfitto e costretto dal provvedimento più grave con cui il Papa poteva colpirlo, la scomunica. Fuggì dopo aver strenuamente lottato per difendere il “partito” a cui si sentiva legato: perché fin dalla fondazione, in epoca carolingia, l’abbazia di Santa Croce fu alleata degli Imperatori – la consacrò nell’887 Carlo il Grosso, e la benedirono con il loro favore via via Ottone I e Ottone II, nel X secolo e lo stesso Federico II di Svevia, nel XIII secolo – tanto da meritarsi l’appellativo di “abbazia imperiale”. La partenza frettolosa dell’abate Filippo, così, riassume tutto il passato dell’abbazia, che fu resa ricca dall’appoggio e dal sostegno al potere temporale, e che poi però, da quando ritornò sotto il controllo dei vescovi di Fermo, fu avviata al declino. E fu forse anche per punire questo trascorso “ribelle” che proprio un vescovo, monsignor Andrea Minnucci, nel 1790, volle degradarla a corte agricola, avviando la distruzione di tutte le vaste pertinenze del monastero, e finendo per ridurre anche la chiesa a granaio e a deposito. Della cittadella monastica dell’abbazia imperiale di Santa Croce in Chienti, un tempo vasta e florida, oggi resta solamente la chiesa. E il declino e l’incuria in cui cadde la stessa basilica sono documentati dai resoconti storici e dalle fotografie; anche quelle a colori, perché l’abbandono è proseguito fino a pochissimi anni fa.

Per avere una nuova vita, la chiesa di Santa Croce doveva attendere che a prendere il posto lasciato a lungo vacante dall’abate Filippo fosse… un architetto. Visitandola oggi, infatti, si ha proprio la sensazione che chi ne ha curato i restauri, conclusi circa dieci anni fa, se ne sia preso cura con la stessa determinazione di un abate che veglia sul monastero a lui affidato. L’architetto che ha curato l’intervento, anzi, ha decisamente inteso lasciare il proprio segno, perché la chiesa non si può dire restituita in modo neutro e tradizionale, tanto evidenti sono i segni della restituzione, con quelle griglie che abbracciano le colonne e le imposte degli archi sovrastanti, e con quegli inserti in pietra bianca che sottolineano come sia stata garantita oggi la stabilità dei sostegni. La navata della chiesa, che per lunghi secoli è stata deturpata dal degrado, richiama oggi certi interni antichi privati, riprogettati ex novo, dove mostrare ciò che si è fatto sembra alla fine più importante che restituire ciò che era. Addirittura, con la costruzione di soppalchi sopra l’ingresso e nelle navate laterali, illuminati da aperture numerose e quadrate, non certo “da chiesa”, l’architetto quasi ha ottenuto un’organizzazione spaziale che sa di atelier, di fabbrica, di studio professionale. E’ entrato in Santa Croce, secoli dopo che l’abate Filippo ne usci in fretta e furia, e se n’è appropriato, e davvero l’ha fatta sua.

Non ho visto, nella terra dolce delle Marche, un’altra chiesa romanica così decisamente e radicalmente trasformata dagli interventi di restauro. E il pensiero corre all’abbazia di San Giusto a Tuscania, restaurata con un intervento ugualmente notevole, che però ha prodotto un effetto diversissimo: là la ricostruzione di un clima e di un effetto antico, qui la fortissima modernizzazione di ciò che si stava restituendo. Ma in entrambi i casi la sensazione è quella di un luogo che, grazie al restauro, non solo ha ritrovato il proprio passato, ma si propone con una sua propria fortissima nuova personalità. Da preferire, senza dubbio alcuno, alla stanca e polverosa conservazione.

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Si arriva a Santa Croce al Chienti – che sta quasi sul mare, nel litorale della provincia di Fermo, lungo il corso del Chienti prima che questo sbocchi nell’Adriatico, a Civitanova Marche – attraversando una vasta piana. La strada sterrata che conduce all’abbazia costeggia vasti vivai pieni di palme e di alberi tropicali. La chiesa poi, persa nel paesaggio caldo e secco, è inserita e chiusa in un area privata. E’ affidata infatti alla famiglia Berdini che, proprietaria, se n’è assunta il restauro prima e la custodia poi. La si visita, quindi, secondo i tempi fissati: è aperta il primo e il secondo mercoledì di ogni mese, oltre che in occasioni particolari (info: 335.6936879 e 333.9961164).
Molte immagini dell’abbazia, ed in particolare della chiesa restaurata, si trovano nelle documentatissima pagina che dedica loro il sito I luoghi del Silenzio, a cui si rimanda chi fosse interessato ad un approfondimento.
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La chiesa di Santa Croce in Chienti è spettacolare anche perché sorge quasi d’incanto nei campi aperti. Ma il tempo romanico è ricco di chiese collocate, come questa, fuori da ogni contesto comunitario. Belle come Santa Croce al Chienti, e come questa isolate, o inerpicate in cima ai monti, o comunque lontane, difficilmente raggiungibili, altre dodici splendide chiese stanno nel volumetto che Before Chartres ha dedicato – finalmente “in carta” – ai più spettacolari nidi d’aquila del romanico. Lo trovi qui: DODICI CHIESE isolate DEL TEMPO ROMANICO
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Fiorenza Favaretto (da Fb):
I tuoi commenti sono affascinanti come racconti. Sei proprio bravo. Buon Natale.
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Lucia Nuzia (da Fb):
Le marche sono piene di interessanti luoghi romanici: grazie Before Chartres perché questa tra le abbazie marchigiane non è tra le più note
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Quando visitai il Chienti una Pasqua di tre anni fa era chiusa e quindi mi manca. Molto interessante per me il tuo post anche per questo motivo.
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Luca Borgia (da Fb):
D’altronde soppalchi e tramezzi son stati fatti a seguito della riduzione a uso profano rurale. Forse un pó vistoso, ma si tratta di un buon recupero, eccome. Oggi, in occasioni particolari, vi si celebra. Non era scontato. Dissento sulla polverosa conservazione…ce ne fossero…per la polvere, basta pulire ogni tot
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Fabrizio Basagni (da Fb):
Ardito ma bello. Perché in sostanza è sobrio. Gli elementi metallici scuri vengono percepiti in modo non molto diverso da elementi originali in legno.
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Gabriella Di Ninni (da Fb):
Bellissimo articolo!
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Gigliola Bellinato (da Fb):
Anche a me è piaciuta tantissimo, mi ha sconcertata ma positivamente. È diventata forse altra cosa da quel che era ma altrettanto notevole. Devo dire che ho gustato quel che resta dei volumi dell’ antico con la risposta della modernità che ci dialoga in una perfetta sintesi di linee e di slanci.
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Paolo Lazzarini (da Fb):
La chiesa è notevole il restauro definirlo ardito è buonismo. Con quelle mattonelle da parcheggio e i blocchi di cemento armato. Il fondi stanziati sicuramente erano miseri.
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Alfonso Feola (da Fb):
Complimenti per questo e per tanti altri articoli. Leggervi è più di un piacere!!
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