Saint-Parize, il mondo in due capitelli

Tra i luoghi in cui possiamo lasciarci avvolgere dal fascinoso raccontare del medioevo romanico, c’è la piccola cripta di Saint-Parize-le-Châtel, non lontana da Nevers, in Borgogna. E’ bello girare con gli occhi socchiusi intorno ai suoi capitelli, due dei quali ci propongono figure che comprendiamo solo in parte, e che però – forse anche per questo – si propongono come archetipi di quel tempo, come sintesi del sapere di allora, quasi illustrazioni d’apertura dei più bei capitoli dell’enciclopedia dell’uomo romanico.

La cripta e i capitelli (foto: Atlas Roman, elab.)
Leoni affrontati (foto: Atlas Roman, elab.)

Nella chiesa, dedicata a san Patrizio, sono sei i possenti pilastri a sezione circolare che reggono le volte della cripta e sei sono, di conseguenza, i capitelli scolpiti: ma mentre su quattro di essi, senza grandi pretese, si affrontano a coppie i leoni, e teste feline vomitano racemi e grandi corolle, e infine fioriscono lunghe foglie verticali, due invece mostrano in successione, come farebbe una lanterna magica, una serie notevolissima di scene, semplici in sé, ma piene di potente forza evocativa, messe lì, si direbbe, ciascuna per ricordare uno degli universi iconografici che fanno ricchissima l’arte figurativa romanica.

L’avaro (foto: Terres Romanes)

Cominciamo il nostro periplo intorno al primo capitello osservando quella che è forse la raffigurazione più originale: un uomo dal volto arcigno, la corta barba e una tonsura che potrebbe essere quella di un monaco, tiene nelle mani due sacche, e le stringe all’altezza delle ginocchia, facendosi piccolo nel gesto di proteggerle da chissà quale aggressione. E’ un avaro, a cui un serpente o un lumacone dalla testa cornuta – forse un demone – parla all’orecchio. Siamo di fronte ad una rappresentazione originale – più spesso infatti ricorre quella dell’uomo con una pesante sacca al collo – dell’avarizia e delle sue conseguenze. Mentre sfida in bellezza le rappresentazioni dell’avarizia di Rebolledo e di Clermont-Ferrand, l’avaro di Saint-Parize-le-Châtel evoca e squaderna uno dei grandi capitoli dell’immaginario medievale, quello cioè dei vizi che attanagliano gli uomini – e delle virtù, a volte – e dei peccati che essi commettono (con le relative pene infernali).

Un passo a lato e incontriamo una sirena bicaudata. Capelli sciolti, priva di seno, gonnellino a coprire il pube altre volte in evidenza, questa figura del mito ci dice di sé – le sirene sono sempre grandi ammaliatrici – e però, allo stesso tempo, evoca un secondo grande libro dei sogni del tempo romanico; qui, la sirena, è il portabandiera della vasta genìa degli esseri non umani – arpie, grifoni, draghi, minotauri, meduse, chimere… – ciascuno con la sua storia, la sua collocazione, e ciascuno con il suo significato iconografico. Che spesso è doppio, come la coda della nostra fanciulla.

La sirena e la donna al pentolone (foto: Atlas Roman)

In fianco a questa femmina mostruosa, ne incontriamo una che è tutta realtà e quotidianità. Il terzo personaggio di questo capitello, infatti, è una donna in carne e ossa, che mescola seria e indaffarata ciò che sta nel pentolone appeso: e come non vedere dietro a lei l’universo dei lavori e dei mestieri che il tempo romanico ha rappresentato in cento modi e in cento attitudini? come non scorgere, dietro a questa massaia, i contadini, i soldati, gli uomini intenti ad allevare il maiale, o a macellarlo, i monaci, i pellegrini che – piedi piccoli e testa grossa – popolano i capitelli e i portali, personaggi reali che sfidano, nell’arte romanica, quelli del mito, e a questi ultimi contendono ogni spazio?

Un altro dei “mondi” dell’immaginario medievale è rappresentato, nelle ultime scene di questo capitello, dall’asino che suona la lira – o che almeno ci prova – e dalla scimmia con in mano il violino. Che non sono semplici raffigurazioni di animali, ma piuttosto vere e proprie citazioni colte, oltre che argute: richiamano a chi osserva, insieme, tutte quelle storie, spesso di derivazione antica, in cui gli animali – galli, volpi, cani, orsi, corvi, gazze ladre, leoni, cicogne, lupi… – giocano un ruolo, edificante o meno, e di cui sono pieni la cultura e la narrazione, sia colta che popolare, dei secoli del romanico.

L’asino e la scimmia con i loro strumenti (foto da Jenormeg.canalblog.com)
L’acrobata (foto da Jenormeg.canalblog.com)

Mentre un serpente dalla lingua triforcuta chiude la giostra del primo capitello, noi siamo già sotto al secondo, a gustarci l’immagine, anche questa diffusissima nel medioevo scolpito, dell’acrobata arrotolato; il quale qui fa le sue giravolte a nome di tutti gli acrobati, e le ballerine, e i musici, e i giocolieri dai quali l’arte romanica – verrebbe da dire in particolare quella ispanica – è abitata e allietata. Poi viene una civetta: è più piccola delle altre figure, ma insieme alla tartaruga che sta poco più in là porta dentro la cripta di Saint-Parize-le-Châtel un altro inventario inesauribile, e cioè quello di tutti gli animali simbolici e araldici dell’immaginario medievale.

La civetta e lo sciapode (foto da Jenormeg.canalblog.com)

E ancora: poteva mancare un rappresentate dei popoli del mondo? Ovviamente no, e infatti con un quarto di giro intorno al secondo capitello ci imbattiamo nel piede unico e gigantesco dello sciapode… ma al suo posto, come immagine di copertina del libro delle genti strane e lontane – le quali certamente, secondo il pensiero medievale, popolano il pianeta – potevano starci qui un pigmeo, o un uomo dalla testa di cane, oppure un ciclope, o un blemmo con il viso nel torace, o un paio di panozi con le loro orecchie smisurate…

Il centauro (foto da Jenormeg.canalblog.com)

Nell’ultima scena scolpita, quella più vasta e appena un po’ più articolata, un centauro caccia il cervo, e lo colpisce con una freccia. L’indice del sapere del mondo medievale – i vizi, i mostri, i lavori, le fiabe, i divertimenti, gli animali, i popoli – che i due capitelli di questa cripta modesta ci hanno offerto forse involontariamente, si chiude con una rappresentazione in grado di evocare ogni aspetto della nostra vita: c’è la caccia, ci sono la carne e il sangue; si mischiano, nell’arte venatoria, la violenza e la nobiltà; c’è ila natura che nutre, e il castello che attende per il banchetto; c’è il mito, in cui l’azione è fiaba, e c’è la vita reale, in cui uno vive e l’altro muore. C’è l’uomo, c’è l’animale, e c’è anche l’unione delle due nature… che dice del Dio incarnato, ma dice anche di noi, che siamo tutti, allo stesso tempo, nobili e bestiali, mitici e reali, abili a cavalcare e capaci di uccidere.

Una veduta della cripta (foto da Jenormeg.canalblog.com)

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4 pensieri su “Saint-Parize, il mondo in due capitelli

  1. Giusto Rossi (da Fb):

    Voglio proprio visitare questa cripta. Mi capita molto spesso di trovare nella cripta l’ambiente più interessante e emozionante: e credo dipenda molto dalla scarsa luce che permette di raccogliersi e dall’assenza delle folle che stanno nelle navate delle chiese turistiche.

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  2. Magda Viero (da Fb):

    Sempre interessanti e misteriose le cripte. Le cripte sono proprio più numerose nella zona ovest dell’Europa perché anche le chiese romaniche si salvarono da distruzione o saccheggi. La loro funzione principale era la sepoltura con le reliquie dei santo protettore o abati eccetera che non potevano essere venerati nella chiesa principale. Quando dopo il 1300/1400 si poté fare non vennero più costruite.

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  3. Paolo Salvi (da Fb):

    Questa cripta nel viaggio in Borgogna di Pasqua 2023 non l’ho proprio vista, perché altrimenti dovrei ricordare questi straordinari capitelli. Oppure ero cieco e mi hai ridato la vista!

    Avevo in realtà in programma di tornare quest’anno in Borgogna ancora a Pasqua ma un leggero contrattempo me lo ha impedito. Probabile che torni nel 2025, perché sono tanti i luoghi ammirabili in questa favolosa regione per gli amanti del romanico e del buon vino, dei magnifici paesaggi collinari e sei buoni formaggi, epoisse su tutti.

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