A lungo nei secoli che preparano il tempo romanico, dalla caduta dell’Impero Romano fino almeno alla svolta dell’Anno Mille, in Europa regnano la desolazione e la paura.
“Voi vedete esplodere davanti a voi la collera del Signore… Non vi sono che città spopolate, monasteri rasi al suolo o incendiati, campi resi deserti… Ovunque il potente opprime il debole e gli uomini sono simili ai pesci del mare, che si divorano alla rinfusa tra loro”: così parlavano, nel 909, i vescovi della provincia di Reims, radunati a Trosly. E la letteratura dei secoli IX e X, gli antichi documenti, le deliberazione dei concili, sono piene di questi lamenti.
Proprio con queste parole, Marc Bloch apre il volume La società feudale, che racconta un mondo, quello romanico, in cui dominano la consapevolezza di un’inesorabile decadenza e il severo giudizio sull’operare dell’uomo.
Già il concepimento e la nascita del tempo romanico avvengono tra le rovine. Il mondo che l’Impero Romano, morendo, aveva lasciato in eredità si era sgretolato presto. Cent’anni dopo il fatidico 476 d.C., anno in cui era stato deposto l’ultimo imperatore, dei fasti di Roma non restava che il ricordo. E già gli uomini, specie quelli delle provincie più vicine al vecchio cuore dell’Impero, si erano rassegnati alla fine di tutto: “Vi fu un momento di crisi gravissima – scrive Vito Fumagalli –, come l’attimo in cui manca il respiro e si teme che il cuore si arresti. Alla metà del VI secolo molti uomini di cultura videro eclissarsi la civiltà antica sotto i colpi della guerra, della peste, della carestia; assistettero ai sussulti estremi di un’epoca senza intravedere possibilità di sopravvivenza, senza sperare in un’altra civiltà” (L’alba del Medioevo, p. 69).
Nei secoli VII e VIII, nessun segno di ripresa. Anzi: molte pagine redatte dagli studiosi, dagli storici e dai religiosi del tempo confermano il progressivo incombere del senso della fine, mano a mano che l’Età di Mezzo procede. Sulle macerie della civiltà romana, infatti, cominciano a rovesciarsi ben presto le macerie dei secoli successivi. E il tempo romanico vedrà presto disgregarsi anche la fragile costruzione carolingia, che resse solo fino ai primi decenni del IX secolo. Poi di nuovo sconvolgimenti. “Le persone che in quel tempo sapevano vedere e confrontare, in particolare i chierici – scrive Marc Bloch –, ebbero certamente l’impressione di vivere in un’odiosa atmosfera di disordini e di violenza. (…) La nuova civiltà occidentale, formatasi qualche secolo prima nell’ardente crogiolo delle invasioni germaniche, appariva (…) come una cittadella assediata” (Bloch, M., La società feudale, p. 1). Sferzata dagli Arabi, dagli Ungari e dagli Scandinavi, come spiega Bloch. Ma anche dal trascorrere del tempo che sembrava allontanare via via le nazioni, le città e le campagne da qualsiasi trascorsa grandezza.
Chiusa la parentesi carolingia, l’alba del tempo romanico fu particolarmente cruenta:
“Tra la metà del secolo IX e quella del X, (…) la cristianità fu squassata nelle sue più profonde strutture dai nemici più numerosi e più brutali che essa avesse affrontato dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente in poi (…). Le sue sofferenze – scrive Lopez – furono tanto più crudeli in quanto gli invasori non avevano né i mezzi, né l’intenzione di intraprendere la conquista dell’Europa e, in questo modo, di ridarle pace al prezzo della schiavitù” (Lopez, R. S., La nascita dell’Europa, p. 121).
La risposta del mondo romanico a questo assedio non può che somigliare ad un castello: ed è per questo che nell’Europa romanica gli edifici religiosi si ergono chiusi come fortini contro un nemico insieme concreto e mitizzato.

San Pietro a Tuscania
Accade a Tuscania, sui colli del Lazio, dove l’abside della chiesa di San Pietro, edificata a partire dal IX secolo in faccia all’antica e nobile cittadina, sembra volersi porre come base delle fortificazioni che circondano, con mura e torri, l’intero colle trasformato in insediamento religioso e insieme protetto. Chiesa, certo. E magnifica. Ma rocca protetta, turrita, murata.
Ma gli esempi di “chiesa roccaforte” sorgono in ogni angolo del continente. Il priorato di Serrabone, inerpicato tra i monti in quel lembo di Francia che già guarda alla Spagna, consacrato nel 1080 e ampliato nel secolo successivo, ha la stessa impressionante impermeabilità: ovunque mura piene, feritoie sottili o minuscole al posto delle rade aperture, una torre a garantire un supplemento di difesa. E in una regione di confine come quella spagnola, dove per secoli la cristianità si contrappone all’espansione dell’Islam, la chiesa di San Vicente a Cardona, costruita sulla roccia della regione di Catalogna nella prima metà dell’XI secolo, si presenta come un vero e proprio castello.
Roccaforti di fede, roccaforti di paura, roccaforti di ansia. Baluardi contro un duplice assedio: quello del male e quello degli uomini.

La chiesa di San Vicente a Cardona, in Catalogna
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Sono tanti gli edifici religiosi fortificati, più spesso eretti su alture rocciose apparentemente già di per sé inespugnabili (Sacra di San Michele). Ne ricordo una in particolare, in Provenza a Saintes-Maries-de-la-Mer, compatta, priva di finestre e munita di merlature come un maniero.
Così in Liguria, nell’entroterra a Lingueglietta c’è la chiesa-fortezza di San Pietro, anch’essa con torricini angolari e merlatura. E pure in Sicilia, presso Messina, la chiesa merlata di santa Maria della valle Badiazza. Non sono una rarità in questo periodo di scarsa sicurezza. E poi anche a nord della Francia, ormai in Belgio, la chiesa di Thiérache, Saint-Cyr-et-Sainte-Julitte d’Origny-en-Thiérache ….
Sono solo alcuni casi notevoli da aggiungere a quelli splendidamente citati nell’articolo.
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