Il “doppio passo” romanico a Tarquinia

Santa Maria di Castello è per me la chiesa del ripensamento. Niente che abbia a che fare con vicende interiori, o sentimentali: a ripensare e a rivedere le loro scelte furono, qui a Tarquinia, coloro che stavano edificando la chiesa, in quel XII secolo di culmine e trapasso. E a dimostrarlo, nel vasto corpo della basilica, in apparenza molto coerente con se stesso, sono una colonna – anzi una semicolonna – e poi un elemento ancor più piccolo, un pilastrino angolare.

La storia di Santa Maria di Castello si ricostruisce a partire da date che potremmo definire certe: un’epigrafe in controfacciata ci dice che la costruzione cominciò nel 1121; un’altra ci ricorda la data di consacrazione, che avvenne quasi un secolo dopo, nel 1207. E così sappiamo che quando si cominciò a tirar su i muri il tempo era quello pienamente romanico, ed è in questo tempo che si definì la pianta molto regolare – e molto romanica, appunto – della nuova chiesa: ad una lunga navata centrale, divisa in cinque campate rette da pilastri compositi tutti uguali, si affiancano due navate laterali articolate ciascuna in dieci campate minori, due per ognuna di quelle maggiori a cui corrispondono. Il modello, dicono gli studiosi, è lombardo; e in realtà impressiona come ci si trovi di fronte ad un disegno planimetrico identico a quello del duomo di Modena, con grandi campate centrali quadrate e a crociera, e piccole navate laterali anch’esse a crociera, grandi la metà.

La facciata

Se guarda all’alzato, però, un occhio attento vede che qualcosa stride, tra la parte inferiore della chiesa e le volte che la coprono. E’ il primo ripensamento. Probabilmente, infatti quando si elevarono i pilastri e gli arconi della navata, si progettava una copertura diversa da quella attuale. A confermarlo è quella semicolonna che, appoggiata ai pilastri che non reggono un angolo della crociera, termina inutile, quasi una mensola vuota, un po’ al di sotto del finestrone, e non porta peso. Ce n’è una in ogni campata – anzi, ce ne sono due, una per lato – di queste semicolonne inutili. E sono davvero il segno di un cambio di passo. Enrico Parlato, nel primo “Roma e il Lazio” della Jaca Book, lo spiega ancor meglio di quanto abbia fatto fin qui Before Chartres. Anche per lui è evidente che la costruzione di Santa Maria di Castello si realizzò in fasi distinte: “La prima – scrive – va circoscritta al periodo 1121-1143 circa. Allora furono iniziate le navate laterali, il perimetro esterno e la facciata (…); all’interno l’elevazione fu portata all’altezza dei grandi arconi che collegano i pilastri”. Poi, con la ripresa dei lavori verso la metà del secolo, gli architetti, procedendo alla copertura della navata centrale, fecero scelte diverse da quelle iniziali: “Ne sono prova le semicolonne dei pilastri intermedi – dice bene il Parlato – che stanno a documentare un primo progetto che venne poi completato in modo difforme”.

La cupola dal basso

Il secondo ripensamento, o se vogliamo la seconda innovazione introdotta rispetto a quella che probabilmente era la copertura immaginata in origine, è la cupola che si apriva – ora crollata e sostituita da un tetto ligneo tondo – sopra la terza campata. Si tratta di una soluzione ardita, forse di ispirazione pisana, anche questa però frutto di una modifica in corso d’opera. E a tradire questo secondo ripensamento, stavolta, sono i pilastrini angolari di questa campata mediana; mentre infatti tutti gli altri nella chiesa, nella navata centrale e nelle laterali, hanno senso e portano il peso dei costoloni obliqui delle crociere – in altre parole: ci sono là dove sono necessari -, quelli della campata poi coperta da cupola, invece, ci sono pur non reggendo alcun costolone. Evidentemente, sono stati costruiti per inserirsi, come tutti gli altri, nel sistema di scarico di una crociera; ed a renderli inutili è stata la scelta, successiva, di collocare in questo punto una cupola.

Una semicolonna e un pilastrino d’angolo diventano così i due indizi che costituiscono una prova. E certificano come Santa Maria del Castello, che poteva essere la testa di ponte del romanico “lombardo” nelle terre romane, per molti aspetti refrattarie, in realtà è un “doppio passo”: perché la grande chiesa di Tarquinia nacque romanica, ma crebbe con altre suggestioni; e con le sue coperture “ripensate” immagina già, pur se da distante, altre prospettive e altri modelli, forse già successivi al romanico.

La chiesa vista dalla parte absidale

N.B.: Belle immagini di Santa Maria di Castello, e in particolare la possibilità di una vista a 360°, si trovano nel sito CaninoInfo, da cui anche Before Chartres ha preso alcune foto poste a corredo di questo articolo.

3 pensieri su “Il “doppio passo” romanico a Tarquinia

  1. Giulio Giuliani ha detto:

    Lina Bellati (da FB):
    Ciao siamo arrivate ieri pomeriggio purtroppo tutto chiuso però abbiamo assistito alla processione della patrona la Santa Vergine di Valverde, che non si svolgeva da due anni. Grazie per l’ articolo un abbraccio.

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  2. Paolo Salvi ha detto:

    Sono tanti anni che manco da Tarquinia e dalla Tuscia ed onestamente non ricordo questa chiesa, che ci mostri in modo così interessante, mettendo in luce alcune sue particolarità.
    Ho in programma di tornarvi a breve, magari già a Pasqua e sarà possibile, e non mancherò di ammirarla come merita.

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  3. Giulio Giuliani ha detto:

    Silvia Trevale (da Fb):
    Bellissima, forse poco conosciuta dai non addetti ai lavori. L’ho visitata una ventina d’anni fa. Mi ricordo che non era aperta al pubblico, ma si poteva chiedere la chiave a una gentile signora che abitava a due passi dalla chiesa.

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