Questa storia collega due chiese diversissime tra loro, anche se non lontane nello spazio, e cioè l’imponente basilica urbana di Sant’Abbondio a Como, con le sue troppe navate e le sue troppe colonne, e la preziosissima San Pietro al Monte, nei boschi sopra Civate. È qui, in quota, sostando nella piccola cripta dopo la lunga salita che porta alla chiesa, che ho compreso – un po’ come il carabiniere della barzelletta, che ride a messa per la freddura sentita il giovedì – il senso di una cosa letta, di sfuggita, in Sant’Abbondio. Mi sono trovato davanti ad una piccola scoperta: la condivido, sorpreso allo stesso tempo dal suo contenuto e dal modo in cui mi è capitato di farla.
Che cos’ho letto in Sant’Abbondio? Che un restauratore dei tempi moderni – forse il Balestra nell’Ottocento, o il Giussani, che intervenne intorno al 1930 – decise di “depurare” i capitelli delle grandi colonne dalle aggiunte che li rivestivano, e di ri-scoprire i “cubi” smussati che oggi vediamo. Dovrei tornare a Como, per rileggere quella frase sui pannelli che, nella navatella di sinistra, raccontano la lunga storia della chiesa, e per riferirla con correttezza; ma la sostanza era questa: cercando con i restauri di ridare alla chiesa il suo aspetto medievale, i restauratori hanno fatto togliere quanto, già nel medioevo, era stato aggiunto, in stucco, ai capitelli. Solo un istante mi ero soffermato su quella annotazione, e solo per un istante mi sono chiesto che cosa intendesse dire in realtà. Poi ho ripreso a fare foto.
Ma quella nota mi è tornata in mente il giorno successivo quando, nella chiesa di Civate, i capitelli della cripta mi si sono presentati davanti con la loro ornamentazione in stucco, in alcuni completa, e in altri conservatasi solo in parte. Mi è risultata evidente la modalità con cui gli artisti del tempo romanico hanno voluto e saputo realizzare, utilizzando appunto decori a stucco, capitelli che sembrano pietra scolpita; ho realizzato come l’interno grezzo, normalmente cubico, può essere in realtà la base di partenza per la realizzazione di un capitello di ben altro valore artistico, ottenuto non per sottrazione, scolpendo la pietra, ma con l’aggiunta di gesso particolare, a sua volta plasmato e scolpito, e poi magari anche dipinto. E ho compreso, infine, come mai venisse criticata, in Sant’Abbondio, quell’opera di restauro radicale, e la scelta di “ripulire” i capitelli dalle superfetazioni, anche fosse molto rovinate; scelta forse troppo drastica, che ci ha privato di una testimonianza del lavoro dei decoratori romanici.
Non so in quante chiese romaniche sia accaduto, che i capitelli siano stati realizzati come semplici cubi smussati, o in forme simili, per poi essere trasformati in pezzi d’arte con una copertura in stucco; ma di certo quelli della cripta di Civate sono un esempio eclatante, e Before Chartres ha già raccontato di un altro capolavoro realizzato in questo modo nella chiesa di Moscufo. Non so nemmeno se davvero i capitelli di Sant’Abbondio, che sono posti molto in alto, fossero davvero coperti di rilevi in stucco, come mi pare di aver letto in quel passaggio. Ma si usava, sì, questa modalità decorativa, quest’aggiunta di gessi alla pietra o al mattone; ed è bene tenerlo presente quando ci troviamo di fronte a colonne e capitelli che ci appaiono troppo poveri e troppo banali per essere stati concepiti così, per essere stati immaginati così da un costruttore dei secoli più affascinanti, quelli del tempo romanico.
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La cripta di San Pietro al Monte, una delle perle più belle del romanico dei Laghi lombardi, non è un luogo “vicino”: si arriva alla chiesa dopo una salita impegnativa attraverso i boschi sopra Civate. La chiesa è spettacolare, per la sua collocazione, per gli affreschi, l’apparato liturgico, le lastre antiche ed enigmatiche, il ciborio. Una delle caratteristiche di San Pietro al Monte è la decorazione realizzata a stucco, di cui la chiesa è ricchissima, sia nella parte superiore, sopra l’ingresso, sia nell’arredo, sia nella cripta. Per tutto questo, è importante assicurarsi, quando si decide di affrontare la salita, di poter accedere all’interno: si faccia riferimento agli Amici di San Pietro al Monte (amicidisanpietro.it) prenotando la visita via email o via cellulare. Potrà accadere anche di essere accolti dalla signora Pinuccia, che con noi è stata specialissima per cortesia e competenza; e comunque si avrà la possibilità di godere appieno di una delle più belle realizzazioni del romanico.
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La terra alta tra Milano e i Laghi è una delle culle, se non la vera culla, dell’architettura romanica. Da qui i “maestri comacini” portarono i segreti della loro laboriosa abilità costruttiva un po’ dovunque in Europa. Un itinerario in dieci tappe racconta le loro realizzazioni più preziose – da Almenno San Bartolomeo a Gravedona, da Agliate ad Arsago Seprio a Civate – e lo spirito, i colori, i materiali, i modi e i vezzi che hanno lasciato nelle loro terre d’origine: DIECI PERLE romaniche TRA MILANO E I LAGHI.
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Ce ne sono altre undici. Belle come San Pietro al Monte, come San Pietro inerpicate ad alta quota, o comunque lontane, difficilmente raggiungibili, altre undici splendide chiese stanno nel volumetto che Before Chartres ha dedicato – finalmente “in carta” – ai più spettacolari nidi d’aquila del romanico. Lo trovi qui: DODICI CHIESE isolate DEL TEMPO ROMANICO.
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Andreina Milan (da Fb):
La questione “stucco” mi pare centrale e decisiva. Troppa materia artistica e cromatica è andata perduta con l’avvento di restauri drastici e improvvidi. La consuetudine dello stucco appare inveterata in tutto l’occidente longobardo. Lo testimoniano le raffinatissime plastiche del Tempietto di Cividale e i capitelli bresciani a Santa Giulia. Dovremmo studiare di più quello che si conserva – magari non inventariato – nei magazzini dei musei e delle Soprintendenze.
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Quando finalmente arrivi a San Pietro al Monte a Civate, oltre ad uno splendido paesaggio tra i monti che dominano il lago con questo magnifico complesso romanico, ti si aprono degli orizzonti di conoscenza. Questi sono legati all’uso dello stucco per decorare, che, forse, mai come qui sono ancora ben conservati e delineati. Ti rendi conto che non solo la pietra poteva essere scolpita, ma che essa poteva essere il mero supporto di una decorazione più plastica e quindi più raffinata. Ed allor rimetti in discussione molte delle tue conoscenze, e come ben fai, ti poni delle questioni su edifici rimasti più spogli. Erano davvero così nel Medioevo?
La questione degli stucchi si aggiunge così all’altra annosa questione delle coloriture andate perdute, che ancora destano “scandalo” per noi patiti della pietra nuda, “romanica”.
P.S. Il Magister avrebbe da ridire su quel Sant’Abbondio scritto con due “b”… 😉
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Sai, Paolo, che avevo usato anch’io sempre la formula “Sant’Abondio”? E a Como ho anche fatto a Maria Pia… una capa tanta che si dice così, con una sola “b”… Poi ho visto che nella “letteratura” comune si usa molto più spesso la forma usuale, e sono passato a quella… Speriamo che Francesco non legga il post 🙂
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Daniela Consonni (da Fb):
Molto interessante, grazie.
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Maurizio Pistone (da Fb):
I capitelli geometrici potrebbero a volte essere semplicemente non finiti? La costruzione delle chiese romaniche (e non solo romaniche) era spesso tormentata, con frequenti interruzioni dei lavori, e l’intervento di diverse compagnie di muratori e scalpellini. Poiché non esisteva nulla che si possa paragonare ai progetti dettagliati di oggi, la decorazione era in gran parte lasciata alla fantasia, all’estro e alla bravura del singolo artigiano, a meno che non ci fossero precise disposizione del committente – che però non credo che si preoccupasse proprio di tutto tutto. Poteva capitare che, per un motivo qualunque, i lavori si interrompessero, poi dopo qualche tempo poteva intervenire una nuova compagna di lavoratori che non necessariamente riprendeva il lavoro proprio da quel punto con lo stesso disegno. Certo, è da chiedersi se i singoli elementi della struttura venivano prima finiti poi posti in opera, oppure se la fase finale della decorazione avvenisse sul posto. A Vezzolano ci sono alcuni esempi di capitelli con una decorazione chiaramente incompleta, un motivo decorativo qua finito, là appena abbozzato. Addirittura nel famoso capitello delle storie di Maria, il lato destro (Maria che riposa nel letto dopo la Natività) è appena sbozzato, mentre la parte sinistra (l’Annunciazione) presenta addirittura tracce di colore, quindi è da considerarsi ultimato. In altri casi, la decorazione finale, anziché in stucco, poteva essere semplicemente dipinta: sempre nel chiostro di Vezzolano, i capitelli dell’angolo nordoccidentale sono di tozza forma geometrica, ma è ancora visibile la decorazione pittorica a motivi vegetali. Anche alcuni capitelli di Santa Fede di Cavagnolo, con motivi vegetali molto grezzi, erano probabilmente completati con la pittura.
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Tutto giusto e tutto vero, Maurizio. Esistono nel romanico molti esempi di capitelli dipinti – e Before Chartres ne ha presentati alcuni, si pensi a quelli di Issoire, di Chauvigny, di Mozac… – anche se non sempre i colori sono quelli originali; poi esistono molti casi di capitelli non finiti, o finiti in parte… Però questa è… una categoria nuova: qui si ipotizza che quelli che noi vediamo come capitelli cubici, con gli angoli smussati, venissero completati con l’aggiunta di decorazioni in stucco; mi pare invece impossibile che venissero scolpiti in seguito, perché sottraendo materiale sarebbero diventati più piccoli, non proporzionati al fusto della colonna. Poi, lo ribadisco, sono ipotesi da valutare caso per caso.
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